L’operazione dei carabinieri “Fiori Bianchi tre” aveva connotazioni molto più vaste, la procura distrettuale antimafia aveva chiesto 95 misure cautelari, ma il gip ne ha concesse solo 77. Il gip Giuliana Sammartino nell’ordinanza scrive che “dovendo decidere su un elevatissimo numero di posizioni, su vicende che si snodano su un ampio arco temporale, ed avendo rilevato che molti elementi indiziari si fermano ad un’epoca risalente” adotta criteri particolarmente rigorosi…”, ritenendo assenti le esigenze cautelari in tutti quei casi in cui gli elementi a carico di taluni indagati si fermano agli 2006-2007. E dunque venendo meno gli elementi presuntivi di allarme sociale”. L’operazione “Fiori Bianchi tre” si è avvalsa della collaborazione di un lungo elenco di penti a cominciare da Santo la Causa. Ecco chi sono i collaboratori di giustizia che hanno puntato l’indice contro i colonnelli e i picciotti del clan Santapaola.
Santo La Causa (nella foto) ha iniziato a collaborare con la giustizia nell’aprile 2012, durante la detenzione cui era sottoposto per aver partecipato con ruolo apicale alla famiglia di Cosa Nostra catanese fino all’ottobre 2009. Ha subito ammesso la propria responsabilità per omicidi in relazione ai quali non era stato mai sottoposto ad indagini, e per il duplice omicidio di Angelo Santapaola e di Nicola Sedici (per il quale egli era stato prosciolto nel corso dell’udienza preliminare Iblis). La Causa ha sempre avuto un ruolo significativo nei gruppi che hanno fatto parte della famiglia catanese di Cosa Nostra: dapprima, negli anni ’80, nel gruppo Ferrera (Cavadduzzi) e poi , a decorrere dal 1995, nel gruppo Santapaola. Nel periodo compreso tra la metà del 1998 cd il gennaio del 1999, ebbe l’ incarico di reggente della famiglia Santapaola – Ercolano ed il compito di riorganizzare il gruppo dopo le vicende legate all’esecuzione dell’operazione “Orione”. Nell’ultimo periodo di libertà – dall’agosto 2006 all’ottobre 2009 -, su mandato di Vincenzo Santapaola, figlio di Benedetto, il rivestì un ruolo apicale assieme a Vincenzo Aiello Vincenzo (che si occupava dei rapporti con gli imprenditori), ad Arcidiacono Francesco ed a Puglisi Carmelo ed il compito di riprendere le fila dell’organizzazione, restaurando le regole che erano state medio tempore disattese con particolare riferimento al controllo delle attività imprenditoriali ed al conferimento dei proventi alla bacinella comune. Il ruolo apicale di La Causa Santo ed il suo stato di latitanza sin dall’agosto 2007 facevano sì che egli limitasse i propri contatti con gli esponenti apicali dei gruppi operanti nel territorio, e che dedicasse la propria attenzione ai fatti che risultavano prioritari per la vita della organizzazione. Non a caso egli ha potuto ricostruire la struttura della organizzazione individuando i gruppi, i capi dei medesimi. le strategie complessive, i rapporti con le altre organizzazioni mafiose ed i delitti più eclatanti; laddove non ha potuto. di contro, fornire notizie precise in ordine agli organigrammi completi di tutti i gruppi operanti nella famiglia catanese di Cosa Nostra.
Ettore Scorciapino ha iniziato a collaborare con la Giustizia il 28 giugno 2006. Figlio del più noto Ninu ‘u Musterianchisi, un tempo organico al gruppo del Malpassolu ed, in particolare, alla squadra di San Giovanni Galermo, retta da Salvatore Grazioso ha svelato di aver fatto parte di più associazioni per delinquere di tipo mafioso; ed in particolare, dal 1994 al 1995, seguendo le orme del padre, era stato affiliato al clan del Mapassolu, mentre, dopo il pentimento di quest’ultimo, era entrato a far parte del clan Santapaola, con mansioni di comando del gruppo di San Giovanni Galermo”. Nel 2000, poi è transitato nel gruppo di Pietro Crisafulli (Petru mafiantica) reggente della frangia di “Lineri -San Giorgio”, e lo aveva diretto dal 2004 al 200″ (periodo nel quale il Crisafulli era detenuto). A metà dell’anno 2005, infine, a seguito di contrasti insorti con Angelo Santapaola, inteso Champagnedda, cugino di Benedetto Santapaola, era entrato a far parte del clan di Mazzei Santo, inteso ‘U Carcagnusu, e, in tale contesto, aveva diretto il gruppo di Belpasso (CT).
Salvatore Torrente ha fatto parte del gruppo del Villaggio Sant’Agata, ove ricopriva mansioni esecutive, sino al 2009. Si tratta di una collaborazione recente, maturata nel timore di subire ritorsioni a causa della violazione di una delle regole più ferree vigenti in seno a Cosa Nostra. Il 14 maggio 2009, infatti, Salvatore Torrente, inteso Turi ‘u Pisciaru, si presentava spontaneamente presso il comando provinciale dei Carabinieri di Catania e offri va la propria collaborazione in cambio di protezione, essendosi appropriato indebitamente di denaro spettante alla “frangia santapaoliana” di stanza nel quartiere di Villaggio Sant’Agata, nella quale aveva militato sin dal 2006. In tale contesto, forniva un concreto contributo per la ricostruzione degli asserti dell’associazione mafiosa, svelando i nomi di vecchi e nuovi affiliati, ed indicando una cospicua serie di estorsioni eseguite in danno dei titolari di attività commerciali operanti nel catanese. Forniva, da subito, prova della propria attendibilità, consentendo di rinvenire alcune pistole in dotazione al Gruppo del Villaggio Sant’ Agata.
Ignazio Barbagallo nei primi anni ’90 si affiliava al clan del “Malpassotu”, ed in particolare al Gruppo di Belpasso, facente capo a Stimoli Francesco (uomo d’onore, oggi ergastolano). Nel 2000, uscito dal carcere, transitava nel clan “Santapaola”, in seno al quale si occupava di distribuire gli “stipendi” agli affiliati del proprio gruppo e, nel tempo, diveniva responsabile del gruppo di Belpasso. Nel 2008 stabiliva stretti rapporti con Carmelo Puglisi e si occupava direttamente di curare la latitanza di quest’ultimo che, all’epoca era il responsabile del gruppo della “Civita”, e di Santo La Causa, all’epoca reggente della famiglia catanese di Cosa Nostra. Nel 2009 diveniva uomo d’onore e organizzava e partecipava a riunioni tra i due latitanti ed altri esponenti apicali della medesima organizzazione. Tratto in arresto nel blitz dell’ 8 ottobre 2009, decideva di recidere i legami con Cosa Nostra e collaborare con la giustizia, fornendo un contributo di elevato livello, particolarmente utile sia per la ricostruzione degli organigrammi dell’associazione, sia per la comprensione delle ragioni che avevano determinato l’innalzarsi della tensione tra la famiglia catanese di Cosa Nostra ed i clan dei Cappello e dei Carateddi. Ed il tentativo di questi ultimi di modificare in loro favore gli equilibri interni ai clan operanti nel catanese.
FiIippo Santo Pappalardo, inteso Pedichino, si è associato, da giovane, alla frangia santapaoliana del comprensorio di Paternò , retta da Domenico Filippo Assinnata, della quale, in un dato momento storico, diveniva il responsabile pro tempore, a causa dell’improvvisa carcerazione degli elementi più rappresentativi. Nella circostanza, egli si rapportava direttamente con gli esponenti della famiglia catanese di Cosa Nostra stanziati nella città di Catania, acquisendo, pertanto, conoscenze anche al di fuori dei confini paternesi. In tale contesto, il Pappalardo forniva un contributo di rilievo sia per l’individuazione di Cosa Nostra paternese e di altre “frange santapaoliane:’ operanti in alcuni quartieri catanesi, sia per l’individuazione di numerose ditte sotto estorsione. Le sue dichiarazioni, rese a decorrere dal 2009, presentano carattere d’intrinseca attendibilità e novità e sono state, per diversi profili, riscontrate dalle dichiarazioni degli altri collaboratori.
Salvatore Sciacca. La recente collaborazione dello Sciacca trae origine dalla necessità di tutelare la propria incoIumità, a seguito di contrasti insorti con Carmelo Piacente, esponente di rilievo dei Ceusi, consorteria mafiosa storicamente operante nel quartiere catanese Picanello, strettamente alleata del clan Santapaola – Ercolano. Il giovane Sciacca apparteneva, infatti, inizialmente proprio ai Ceusi, dai quali, non ancora maggiorenne, veniva impiegato per dar fuoco ai camion delle ditte che rifiutavano di sottostare all’ imposizione del “pizzo”, e per trasportare sostanza stupetàcente in particolare cocaina e marijuana. Nel 2005, dopo un periodo di detenzione si avvicinava alla frangia santapaoliana del quartiere Picanello e, in tale contesto, commetteva rapine, furti ed estorsioni. Ha iniziato a collaborare nell’agosto 2010.
Antonino Scollo, un tempo “soldato” del Gruppo di Lineri – San Giorgio, condannato, in secondo grado, alla pena di ventidue anni e sei mesi per l’omicidio di Michelangelo Domenico Loria e per tentato omicidio del fratello Francesco fatto avvenuto a Catania la sera del 28 febbraio 2007, decideva di collaborare nel luglio 2011 perché, a seguito dell’evento delittuoso sopra richiamato, non si sentiva sufficientemente tutelato dal clan Santapaola rispetto ai Carcagnusi, che pretendevano vendetta per la morte di Loria.
Goffredo Di Maggio ha iniziato a collaborare con la Giustizia il 30 giugno 2012, rendendo spontanee dichiarazioni al Pubblico Ministero al quale rappresentava di aver fatto parte prima del clan Mazzei e poi del gruppo mafioso dei Nizza, appartenente al clan Santapaola, e di voler collaborare con la Giustizia, rendendo dichiarazioni sui fatti criminali a sua conoscenza, ed in particolare, sulle piazze di spaccio catanesi facenti capo ai principali clan mafiosi della città. In data 12 luglio 2012 il Di Maggio ha riferito in ordine a numerosi episodi delittuosi e, tra l’ altro , in ordine all’omicidio di Giovambattista Motta, per il quale veniva emessa ordinanza di custiodia cautelare in carcere nei confronti di Musumeci Luciano.
Salvatore Viola ha iniziato a collaborare 12 giugno 2012, rendendo spontanee dichiarazioni al Pubblico Ministero, al quale ha rappresentato di far parte del gruppo mafioso di Turi Amato, appartenente al clan Santapaola e di voler collaborare con la giustizia , rendendo dichiarazioni sui fatti criminali commessi da elementi di spicco di Cosa Nostra catanese. Due giorni dopo, in sede di interrogatorio, il Viola confermava la propria volontà collaborativa, riferendo sul suo ruolo all’interno del gruppo di Turi Amato e, dopo l’arresto di questi , all’interno del gruppo dei Nizza, per conto dei quali si occupava di rifornire le piazze di spaccio catanesi, sotto il controllo del clan Santapaola. Sottoposto a misure urgenti di protezione con provvedimento della Commissione Centrale del 18 luglio 2012, il Viola riferiva che, nel periodo antecedente all’assassinio Angelo Santapaola, egli era stato molto vicino a quest’utlimo, frequentando il suo gruppo ristretto, formato tra gli altri, da Nicola Sedici, Filippo Crisafùlli, Giuseppe Gianguzzo, Alfio Diolosà e Luciano Musumeci. Tra i vari delitti riferiti , Viola mostrava di essere a conoscenza di numerosi fatti omicidiari, tra cui l’assassinio di Giovanbattista Motta, fatto per il quale veniva emessa ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Musumeci Luciano.
Giuseppe Mirabile, nipote di Santapaola Antonino (fratello di Santapaola Benedetto) reggente dell’organizzazione Santapaola nei primi anni del 2000, e fino alla data del suo arresto gennaio 2003, ha iniziato a collaborare con la Giustizia in data 25 settembre 2012. Le indagini eseguite sul suo conto, che conducevano all’emissione di ordinanza di custodia cautelare in carcere nei suoi confronti nel gennaio 20 12, hanno dimostrato che lo stesso, ancorché detenuto, manteneva un ruolo apicale nel proprio gruppo, dando direttive agli affiliati in libertà, tramite il fratello Paolo ed il padre Francesco, giungendo allo scontro con altri componenti della medesima famiglia, per preservare le proprie prerogative e competenze nella gestione delle attività criminose.
Paolo Mirabile, nipote di Santapaola Antonino (fratello di Santapaola Benedetto) e fratello di Giuseppe, ha iniziato a collaborare con la Giustizia nel novembre 2012, dopo l’esecuzione di un attentato, da parte di ignoti, in danno di una attività commerciale, un panificio, gestita da componenti della sua famigli a anagrafica (via Plebiscito). Le indagini eseguite sul suo conto, che conducevano al suo fermo nel gennaio 2012, hanno dimostrato che lo stesso aveva agito per conto del fratello Giuseppe, trasmettendo le sue direttive agli affiliati in libertà, e gestendo personalmente le delicate fasi dello scontro con altri componenti della medesima famiglia, per preservare le proprie prerogative nella gestione delle attività criminose.
I collaboratori appartenuti ad altre associazioni mafiose.
Eugenio Sturiale: esponente della famiglia catanese di (Cosa Nostra), è stato tratto in arresto e condannato nell’ambito del procedimento Orsa Maggiore, ove si è accertato che egli era prestanome di Santapaola Benedetto, con riferimento ai supermercati Superesse; è stato poi arrestato e condannato per quel reato (operazione Zefiro) laddove si è accertata la sua vicinanza a Roberto Vacante, genero di Salvatore Santapaola, fratello di Benedetto, ed agli altri familiari. Lo Sturiale, dopo essere stato arrestato nel novembre 2009, quale esponente deli gruppo Cappello, ha deciso di collaborare con la giustizia nel gennaio del 2010 e, in tale veste, ha spiegato di aver fatto parte della famiglia Santapaola fino al 2002; di essere poi, transitato nel gruppo Cappello; ed infine, nell’ultimo anno precedente il suo arresto, nel clan Laudani. Ha mmesso di essere stato vicino alla famiglia di Santapaola Salvatore e, in misura maggiore, del figlio Vincenzo (classe 56) sin dai primi anni ’90; di essere stato legato da un rapporto di amicizia, nell’ambito del quale si era prestato a fare loro da guardaspalle (era istruttore di arti marziali ed aveva il porto di armi) e ad eseguire delle incombenze che, tuttavia, non coinvolgevano il clan nel suo complesso: che si era intestato la Superesse per volere di Aldo Ercolano, fatto per il quale immediatamente dopo, nel 1993, veniva tratto in arresto. Era rimasto nel clan Santapaola nel periodo successivo, fino a quando le incomprensioni con Maurizio Zuccaro non lo avevano indotto a transitare in altro clan.
Carmelo Riso: partecipe dell’associazione mafiosa laudani fin dal 1988, alle dirette dipendenze di Alfio Laudani Alfio, era “specializzato” nel settore delle rapine, delle estorsioni e del traffico di armi. Nel 2004, all’uscita dal carcere di Giuseppe Laudani Giuseppe, figlio di Gaetano, si avvicinava a quest’ultimo e lo coadiuvava nella riorganizzazione del clan. In un breve periodo, reggeva pure le fila dell’organizzazione, maturando un’esperienza criminale di tutto rispetto. Riso Carmelo è stato arrestato nel 2009, e dopo qualche mese ha iniziato la propria collaborazione con la giustizia, rendendo complete dichiarazioni in ordine all’attività ed all’organigramma della associazione mafiosa della quale ha fatto parte.
Nazzareno Anselmi: Partecipe dell’associazione mafiosa “Laudani” fin dal 1999, alle dirette dipendenze di Laudani Sebastiano, classe 1983, e di Laudani Giuseppe, classe 1982, ha iniziato a collaborare nel febbraio 2010.
Mario Sciacca: affiliato al clan “Laudani” fin dal 2006, alle dirette dipendenze di Carmelo Pavone, detto Melo l’africano, ha avviato la propria collaborazione nel 2010, offrendo un prezioso contributo, soprattutto per la conoscenza dei “quadri di battaglia” delle frange operanti lungo le località nell’acese.
Giuseppe Laudani, figlio di Gaetano (quest’ultimo un tempo capo indiscusso dell’omonima consorteria mafiosa), ha retto le fila dell’associazione dal 1999 al 3 febbraio 2010, giorno in cui risulta aver rassegnato le sue prime dichiarazioni all’ Autorità giudiziaria. Il ruolo di vertice ricoperto nell’ambito della propria “Famiglia” gli ha consentito di confrontarsi, tra l’altro, con gli esponenti apicali dei “Santapaola” -tra i quali Angelo Santapaola e Vincenzo Aiello, con i quali ha rimodulato i termini dei reciproci rapporti, fino a condurli ad un livello di sostanziale parità.
Gaetano D’Aquino: artecipe dell’associazione mafiosa Cappello fin dal 1987, quando, appena sedicenne, si avvicinava a Rosario Litteri detto Saru da Civita ed a Francesco Giuseppe Viola, detto Berry White. Nel 2004, dopo un lungo periodo di carcerazione, nel corso del quale aveva modo di completare gli studi, ritrovava la libertà ed assumeva un ruolo di vertice nell’ambito dell’associazione mafiosa, in virtù dei rapporti privilegiati che lo legavano al “capo indiscusso” dell’intera cosca, Salvatore Cappello, del quale è “figlioccio”. Ha mostrato di possedere una vasta e precisa conoscenza del panorama criminale mafioso etneo. Ha vissuto, da protagonista, il periodo che va dal 2008 (momento in cui gli Squillaci di Piano Tavola e gli Strano di Monte Po si avvicinavano tramite Lo Giudice Sebastiano, al clan dei Cappello/Carateddi) all’ottobre 2009, allorché, con l’operazione “Revenge”, veniva assestato un duro colpo alle mire espansionistiche del clan, divenendo finanche “uomo d’onore” nel corso di una cerimonia tenutasi, il 23 gennaio 2010, all’interno del carcere di “Catania -Bicocca”, alla presenza di Giuseppe e Nicolò Squillaci, intesi Mattiddina, e di Alessandro Strano. A tal proposito, è stato accertato che, effettivamente, il 23 gennaio 2010n, Gaetano D’Aquino, Squillaci Giuseppe, Squillaci Nicolò Roberto Natale c Strano Alessandro si trovavano contemporaneamente detenuti presso la casa circondariale di “Catania -Bicocca”. D’ Aquino ha iniziato a collaborare con la Giustizia nel 2010 rendendo complete dichiarazioni in ordine all’organizzazione alla quale apparteneva, ai rapporti con gli altri gruppi mafiosi ed ai reati fine, accusandosi anche di omicidi in relazione ai quali non erano stati acquisiti in precedenza elementi a suo carico.